venerdì 18 dicembre 2015

Gildo va alla Guerra

Gildo va alla Guerra
(La Grande Guerra vista da un fante)
di Guglielmo Gaviani


(Gildo entra con una bicicletta alla quale sono legate scope, spazzole e una grossa cassetta di legno sul portapacchi. Si guarda in giro e poi inizia a raccontare)

Mi chiamo Egidio Severino, ma in casa come in paese mi hanno sempre chiamato Gildo (ndr scandisce fiero il nome come fosse un soprannome di battaglia). Carlo era mio padre e la mamma si chiamava Enrichetta. Figlio di pochi ma onesti genitori (scandisce)...
Sono nato a Buscate nel 1893 in quella che allora si chiamava Via Valle al numero 18 nel rione di Santa Maria.
Tutti mi conoscono in paese per la mia attività di artigiano e venditore ambulante di scope, brustii (1) e spasatun di saggina (che la raccolgo giù in Valle Ticino). Le spazzole le produco io stesso nel mio laboratorio e poi carico la mercanzia sulla bicicletta e vado in giro nei paesi, casa per casa, a venderla e non torno più fino a quando non l'ho venduta tutta. Questa è la vita che mi piace fare: libero di andare e venire e sempre a contatto con la gente.
In vita mia ho fai un buldél da misté fin da quando ero un bagai voltu inscì (fa segno con la mano l'altezza).

A 11 anni ho cominciato a lavorare a Malvaglio come magutt per 50 ghei al dì, poi sono andato - un anno - dal 1905 al 1906, alla grande filanda del signor Eduardo Imhoff di Buscate a fare la scuinéra: eravamo 7-8 ragazzi che facevano lo stesso lavoro delle ragazze più giovani.(2)
In Filanda, figuratevi, allora c'erano 450 donne al lavoro al tempo dell'ammasso e gli uomini in totale erano non più di dieci.

(Gildo fa qualche passo e si vede una donna vestita con un'ampia gonna nera e sopra porta un grembiule bianco. E' seduta su una cadrega piccola e sferruzza. I due si scambiano uno sguardo e poi lei parla...) (3)
Facevamo dieci ore al giorno in filanda Imhoff: suonava il primo fischio ed entravamo dal portone sulla strada per le sei e poi alle sei e mezzo dovevamo essere al nostro posto, quando suonava il secondo fischio. Lavoravamo fino a mezzogiorno e dalla una alle sette di sera. DIECI ore (ndr scandisce le parole).
Noi scuinèr, prendevamo 65 ghèi al giorno, le filère avevano la categoria superiore e prendevano 30-35 franchi al mese (a secondo delle giornate che lavoravano).
La giornata in filanda era così: ci trovavamo davanti al portone della filanda al primo fischio e quando lo aprivano le prime che entravano erano le scuinère che correvano subito a prendere le cassette delle filère e le mettevano là dietro le bacinelle dove erano sedute, che quando arrivavano avevano il lavoro pronto e guai a ritardare: c'erano delle filère davvero prepotenti che ci trattavano male, ci insultavano ci dicevano di sbrigarci che il lavoro non poteva fermarsi. Le filère mettevano i bozzoli dei bachi nell'acqua bollente delle bacinelle e trovavano il capo del filo e lo univano insieme agli altri per filare la matassa.
Alle otto arrivava da casa la zuppa nelle calderine e la passavano da due sportelli che si aprivano nel portone d'entrata; era compito di tre o quattro scuinère andare a prendere le calderine e portarle alle filère. Tante donne si erano alzate all'alba per fare i lavori di casa, governare le bestie nella stalla, le galline nel pollaio, dare l'erba ai conigli e in più c'era da fare anche qualche lavoro nell'orto. La giornata era lunga e alle otto avevano già fatto una giurnò da lauò, noi povere donne.
Nel pomeriggio portavano da casa i bambini per l'allattamento: c'era uno stanzino dove le donne che avevano i bambini piccoli potevano allattare: per loro era un sollievo; lasciavano lì il lavoro tutte sorridenti e per una mezzora se ne stavano con la loro creatura. Le ore erano tante e non tornavano fino alle 7 di sera a casa e quindi il padrone aveva pensato di fare così. Le donne stavano a casa in maternità solo 40 giorni dopo il parto , ma prima niente e diverse volte qualcuna è stata accompagnata a casa a partorire con in caratùn perché lo stava facendo nascere in filanda quel povero bambino.
Potevamo chiedere un permesso per stare a casa dalla filanda solo al tempo che il baco faceva la furia e bisognava star dietro a dargli la foglia giorno e notte. I bachi li coltivavamo in casa e gh'ea una spüsa, ma una spüsa che io e il mio fratellino andavamo a dormire nel fienile, ma ci portavamo un sacco per coprirci la faccia perché lì giravano topi grossi come gatti.
Questa era la vita in filanda, ma eravamo giovani e si cantava che era una bellezza, tutto il giorno, per non sentire la fatica del lavoro e ci sentivano fino in piazza da come cantavamo forte.

*** Si sente in lontananza la canzone “Marito mio son fresca e son gelata”*** (4)

Marito mio marito son fresca e son gelata
sposina la mia cara quantí füs c'ha te filaa
ne ho filato uno - và giù e và lavora
che questa non è l'ora di venire a letto con me -

Marito mio marito son fiesca e son gelate
sposina la mia cara quanti ğs c'ha te filaa
ne ho filati due - và già e và lavora
che questa non è l'ora di venire a letto con me -

ne ho filatí tre...quattro...cínque...sei...

Marito mio marito sonƒresca e son gelata "
.sposína la mia cara quanti ƒüs c'ha te filaa
me n'ho filato sette – tra ƒöra la ƒasètta
e valsa la gambètta e poi vieni a dormire con me.

(Gildo riprende il suo racconto)
Poi son venuto via dalla filanda, che la vita di fabbrica non faceva per me.
Nel 1907 ho ripreso il lavoro di manovale a Borsano: giravamo, per lavori di edilizia, Busto, Senago, Borsano e Legnano.
Allora si raccontavano tante storie e questa è una di quelle che parla propri di noi, di noi magut...

(Voce femminile)
Ul Signur di puariti al guòrda da chénola porti

I tempi indrée i magutt indéan lauò a Busti a pée (ndr fa segno col pollice verso Gildo). A paséan in di buschi dadré da a Valoscia e indèan giò tacò d'ul cimiteri da Sinàgu. Liliscì pisé innansi da a gésa ghéa nu ul punti tanmé adàss, a ghéa ul pasogiu a livéll da a Nord. Traversòo chél lì te séa subal a Busti.
Quandu i ciapéan a quindasò a vignéan a còo tul cuntènti. Pagamèntu che lì dadrée dul cimiter da Sinàgu, in chi buschi lì, ghéa sampar in gir un quoi malnotu cal spicéa i pulastar da paò.
I magutt a turnéan strochi tanmé i bésti, ca l'éa giò scur, e a caminéan a svaltu. Arivò liliscì a truéan i lodar che gha déan una méda da boti e gha purtéan via tuci i dané.
Una volta, doo e tree i magutt han pansò una roba: han metù-su su una pionta un crucefiss cun un cartàl con scritu bal in grondi:
Dio ti vede
Un quoi vun l'ha comenciò a ciapai in gir e insci a filastroca di fiò l'é diantòo :

O Signur di puariti
chél di sciur al ghò i curniti
chél di frò l'é tul strasgiòo
chél di munighi l'é tul giustòo
e chél di magutt l'é stòi gratòo
(ndr fa il segno del rubare con la mano)

***Traduzione per i sottotitoli***

Tanti anni fa i muratori andavano a lavorare a Busto a pée (a piedi). Passavano nei boschi dietro alla Valascia e andavano giù per la strada di campagna vicino al cimitero di Sacconago. Più avanti della chiesa del paese non c'era ancora il ponte sulla ferrovia come adesso, allora c'era il passaggio a livello. Attraversato quello erano subito arrivati a Busto.
Quando prendevano la quindicina, i magutt tornavano a casa tul cuntenti, peccato che ad aspettarli dietro al cimitero di Sacconago c'erano dei malintenzionati che li aspettavano per spennarli.
I muratori tornavano stanchi come bestie dal lavoro, che era già buio e camminavano svelto. Arrivati lì però trovavano i ladri che gli davano una mano di botte e gli portavano via tutto.
Una volta , due , tre e allora i muratori hanno appeso su una pianta, ben in alto, un crocefisso. Poi hanno attaccato un cartello con su scritto:
Dio ti vede”.
E così qualcuno ha cominciato a prenderli in giro, i magutt, e la filastrocca che si diceva i bambini è diventata così:
O Signur di puariti
chél di sciur al ghò i curniti
chél di frò l'é tul strasgiòo
chél di munighi l'é tul giustòo
e chél di magutt l'é stòi gratòo

(Gildo riprende a raccontare)
Te capì ma s'éan cunsciòo ? Ma ciapean par ul cü anca i fiö e i don...

A 17 anni mi son deciso a partire per la Germania a lavorare nelle miniere di ferro dell'Alsazia Lorena e lì ho fatto 3 anni di mina.

Hirondelles (rondinelle) ci chiamavano i francesi (ndr fa segno con le mani). Partivamo dall'Italia ad Aprile per la Francia, per la Germania e la Svizzera e tornavamo a casa a Ottobre con in tasca un quoi froncu. Quando arrivavamo in quei paesi di minatori, l'accoglienza non era delle migliori: quelli del posto ci guardavano male, pensavano che gli rubavamo il posto di lavoro. Ma noi eravamo più poveri di loro se partivamo dal nostro paese e accettavamo di andare giù nelle gallerie a scavare carbone, a sparare la mina. Scendevamo nei pozzi bianchi e tornavamo su neri, tutti i santi giorni. Anche il mangiare poi sapeva di carbone. E quell'odore delle lampade a carburo, poi, mischiato al sudore e alla polvere ti rimaneva addosso anche quando eri tornato in Italia e lo sentivi che ti raschiava in gola. Loro, i crucchi, niente, non ci volevano e boicottavano anche i negozi e i bar che frequentavamo noi, spaccavano le vetrine a sassate, mettevano cartelli con su scritto “qui gli italiani non devono entrare”.
Non parliamo poi quando sono nati i Sindacati nelle miniere... La colpa era degli italiani, naturalmente, che avevano portato queste idee sovversive. Dicevano che erano stati quelli della Società Umanitaria di Milano che avevano mandato qui apposta uno di loro che si chiamava Tullio Cavallazzi. Cosa dovevano fare se la paga era poca e il lavoro ta maséa e gh'ea da giunto a pell a laurò suta a tàra? Nel 1905-06 avevano cercato di alzare la testa: allora si che i lavoratori l'hanno fatta tremare la miniera, altro che la mina. C'erano stati scioperi, gli uomini non scendevano giù a lavorare, tutti davanti ai cancelli, la lotta era stata düra ma düra e alla fine... i minatori avevano perso. I giornali allora si erano scatenati e avevano preso a darci addosso dicendo che “la situazione deve essere RISANATA a colpi di espulsione”, dovevano liberarsi SUBITO dei sovversivi. E chi hanno spedito a casa ? I lavoratori italiani e quelli polacchi, naturalmente !
Questi tedeschi che non potevano vedere gli italiani ce l'avevano su con tutti gli stranieri e anche con gli ebrei, non ho mai capito bene perché. Ma poi via quelli, è arrivata un'altra ondata, siamo arrivati noi: quando c'ero io in Alsazia almeno 30-40 erano di Buscate che lavoravano in miniera o a fare gli sterratori con badile e carriola: Non c'era tanto da scegliere, ci toccava andare lì a lavorare...

[Di sottofondo intanto cresce la musica della canzone “Minatori non partite”] (5)

Minatori non partite

Minatori non partite
non andate via di qua,
non lasciate qui la mamma
e i vostri piccoli tesor.
Per il beco di quattrino
ho lasciato il casolar,
tu non scrivi e più non torni
e mai per sempre tornerai..

Ritorna presto, amor
dalla miniera
un forte abbraccio ancor
dal tuo piccino che piange per te..

Minatori non partite
non andate via di qua,
non lasciate qui la mamma
e i vostri piccoli tesor.
Il piccino si è ammalato
chiama sempre il suo papà
che non scrive e più non torna
e mai per sempre tornerà..

Ritorna presto amor
dalla miniera
un forte abbraccio ancor
dal tuo piccino che piange per te…

***Cambio di inquadratura***

(Gildo riprende il suo racconto)
Ho deciso di venir via dalla mina e così nel '13 sono partito per Parigi. Là c'era mio zio, con altri di Buscate, e ho lavoravo anche lì come muratore...
6-7 mesi dopo c'è stata la mobilitazione generale. Quando è scoppiata la guerra ero in Francia e gli emigranti li hanno mandati a casa tutti...

Se ne raccontano tante sulla Grande Guerra: ognuno l'ha raccontata come ha voluto, questa storia. E, sopratutto, ce l'hanno raccontata quelli che la guerra l'hanno voluta con tutte le loro forze. Sapete? Erano in tanti a volerla questa maledetta guerra e tutti avevano i loro BUONI motivi: c'erano quelli che la volevano per contrastare le pretese dei socialisti, c'erano i sindacalisti rivoluzionari che la volevano per cacciare Giolitti e c'erano anche quelli che pensavano di concludere l'Unità d'Italia.
Tutti gridavano nelle piazze che la guerra era l'unica soluzione possibile e quella che avrebbe risolto tutti i mali.
Figuratevi che non importava nemmeno molto “contro” chi farla questa guerra: su questo c'erano delle idee molto diverse (c'era chi la voleva contro la Francia e chi contro l'Austria), forse perché il vero avversario non era straniero.
La guerra da combattere (quella vera) era qui, dentro all'Italia: tutti avevano messo nel mirino l'avversario e la guerra serviva per annientarlo.

*** Appare “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo *** 6

(Voci fuori campo. Gildo si guarda in giro come spaventato e si irrigidisce sull'attenti man mano che sente le voci )
« Il sangue è il vino dei popoli forti; il sangue è l'olio di cui hanno bisogno le ruote di questa macchina enorme che vola dal passato al futuro - perché il futuro diventi piú presto passato...››. «La civiltà industriale, come quella guerresca, si nutre di carogne. Carne da cannone e carne da macchina. Sangue sul campo e sangue sulla strada; sangue sotto la tenda e sangue nell'officina. La vita non sale che gettando dietro di sé, come zavorra, una parte di se stessa ››. «In verità siamo troppi nel mondo. A dispetto del malthusianismo la marmaglia trabocca è gli imbecilli si moltiplicano... Per diminuire il numero di codeste bocche dannose qualunque cosa è buona: eruzioni, convulsioni di terra, pestilenze. E siccome tali fortune son rare e non bastano ben venga l'assassinio generale e collettivo››. Chi odia l'umanità - e come si può non odiarla anche compiangendola?- si trova in questi tempi nel suo centro di felicità.. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l'odio e lo consola...››. «La guerra... giova all'agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz'altra spesa di concime... E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose...». «Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi ››(7).

(Gildo riprende)
Chi è stato dentro le trincee, si è congelato sulle montagne del Carso o è rimasto impigliato nei fili spinati intorno all'Isonzo, ha assaggiato il fango riverso bocconi dentro la neve sul Monte Grappa, o asfissiato dal fosgene e dall'yprite sul Monte San Michele, ha un'idea p r e c i s a di cosa voleva dire “diventare concime” (ndr dice queste ultime due parole guardando fisso nella telecamera e poi abbassando gli occhi a terra)
Noi, povera gente, quella Grande ed eroica Guerra l'abbiamo persa, comunque.
Non piacerà a molti, ma questo è il racconto della mia Guerra.

Tornato dalla Francia, vado al Distretto di Milano e mi destinano al 24° Fanteria di Novara..lì a Novara faccio 2-3 mesi di addestramento, poi mi trasferiscono a Intra con tutto il battaglione.... Facciamo 5 mesi...poi c'è la mobilitazione generale. Rientriamo tutti a Novara perché si doveva partire per il fronte...destinazione ignota..

***Canzone Addio padre e madre addio (a sfumare dopo la terza strofa)*** (8)

Addio padre e madre addio,
che per la guerra mi tocca di partir,
ma che fu triste il mio destino,
che per l'Italia mi tocca morir.

Quando fui stato in terra austriaca
subito l'ordine a me l'arrivò,
si dà l'assalto la baionetta in canna,
addirittura un macello diventò.

E fui ferito, ma una palla al petto,
e i miei compagni li vedo a fuggir
ed io per terra rimasi costretto
mentre quel chiodo lo vedo a venir.

"Fermati o chiodo, che sto per morire,
pensa a una moglie che piange per me",
ma quell'infame col cuore crudele
col suo pugnale morire mi fé.

Sian maledetti quei giovani studenti
che hanno studiato e la guerra voluto,
hanno gettato l'Italia nel lutto
per cento anni dolor sentirà.


(Voce di donna fuori campo. Dolente , ma fiera)
Ma i contadini d'Italia sono partiti, per la guerra...
E, allora, le contadine italiane, in estate e in autunno, hanno raddoppiato, triplicato il loro lavoro quotidiano : le più pesanti, le più dure, le più estenuanti fatiche degli uomini, esse le hanno assunte, con tacito coraggio, con muta fermezza, chiudendo nel loro grande cuore - sì, grande e semplice cuore! - la tristezza e lo sgomento, per l'assente, per il lontano. Sono mancati gli uomini, alla falciatura, alla trebbiatura, ai torchi delle ulive, ai mastelli dell'uva : le donne falciato, e trebbiato, le donne han fatto l'olio e han fatto il vino...
dalle bimbe di otto anni alle vecchie di settanta...
Tutte sono semplici, oscure donne, nella loro tenerezza sanguinante, in tutte le loro viscere materne, sofferenti di un dolore che non ha nome e che ha tutti i nomi: tutte non sono state più che madri di soldati, mogli di soldati, sorelle di soldati. Tutte sono state solamente delle ignote anime femminili che della loro innumerevole pena hanno voluto fare un'opera di pietà femminile, di carità femminile, un'opera di bene, anonima, quasi segreta e pure palese, un'opera tenace, efficace, di bene, di bene, non altro che di bene ! (9)

(Gildo riprende il suo racconto)
Il 23° il 24° Fanteria finiscono a Belluno. Stiamo qualche settimana nelle retrovie, poi partiamo per Longarone, ed infine siamo destinati a Cortina d'Ampezzo....lì scoppia la guerra il 24 maggio e avanti...inizia il calvario: andiamo alle Tofane, al Col di Lana, poi si torna ancora a Cortina, al Monte 3 Croci, al Lago di Misurina, al Monte Piana...i morti non si contano, è stata una carneficina...
Poi scendiamo a valle e così passa l'inverno.
A primavera torniamo a Cortina e saliamo al Passo della Sentinella e alla Coda Rossa...navigando sempre sui 2000 metri di altitudine...pieni di pidocchi...stiamo undici mesi in trincea al Km.24...
La guerra ci era venuta addosso come una granata, all'improvviso, e non riuscivamo più a liberarcene...

[Appare un cartello con scritto: Nella VI battaglia dell'Isonzo, dal 4 al 7 di agosto 1916, muoiono 52.000 soldati italiani e 41.000 austriaci].

(Gildo continua a raccontare)
Gli Ufficiale avevano ben presente come erano equipaggiate le truppe per questa guerra. Ma nessuno ha parlato per paura di essere accusato di “disfattismo” o per semplice tornaconto personale... Di opportunisti anche allora ce n'erano tanti, ma tanti...

*** Canzone “O Gorizia tu sei maledetta” nella versione dei Baraban***

O Gorizia tu sei maledetta

La mattina del cinque d'agosto
si muovevan le truppe italiane
per Gorizia, le terre lontane
e dolente ognun si partì

Sotto l'acqua che cadeva al rovescio
[variante: che cadeva a rovesci]
grandinavan le palle nemiche
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu

O vigliacchi che voi ve ne state
con le mogli sui letto di lana
schernitori di noi carne umana
questa guerra ci insegna a punir

Voi chiamate il campo d'onore
questa terra di là dei confini
Qui si muore gridando assassini
maledetti sarete un dì

Cara moglie che tu non mi senti
raccomando ai compagni vicini
di tenermi da conto i bambini
che io muoio col suo nome nel cuor

Traditori signori ufficiali
Che la guerra l'avete voluta
Scannatori di carne venduta
[altra versione: 'Schernitori di carne venduta']
E rovina della gioventù
[altra versione: 'Questa guerra ci insegna così']

O Gorizia tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.

(Gildo commenta)
Pensate un po' che anche questa canzone era vietata al fronte. Chi la cantava poteva essere accusato di incitamento alla diserzione , definito disfattista e finiva davanti al Tribunale di guerra. E sapevi come andava a finire; ti metteva al muro davanti al plotone d'esecuzione...
I soldati non dovevano pensare, ma buttarsi addosso alle trincee nemiche e basta. Non dovevano avere nessun dubbio !

(Voce perentoria fuori campo, dura e perentoria) (10)
"La miglior qualità del soldato nella guerra di massa e di lunga durata è appunto l'assenza di ogni qualità: l'essere rozzo, ignorante, passivo. Solo così è possibile appieno quella trasformazione della sua personalità che lo rende capace di adattamento alla trincea e all'assalto, che fa di lui un materiale altamente manipolabile, un perfetto pezzo della macchina bellica. [...] Il soldato cessa di essere padre, marito, cittadino, per essere solo soldato.“

(Gildo riprende il suo racconto)
...e lì arriva l'ordine che tre Compagnie del 249 Fanteria devono tornare a Novara a formare una nuova brigata., la brigata Pallanza (era il 20 febbraio del 1917)... dopo vari giri la Brigata è destinata al Carso. Mi mettono in una piccola sezione di pistole mitragliatrici...era l'aprile 1917. Cadorna sferra 11 offensive: dovevate vedere che combattimenti sul Carso per conquistare un chilometro di terreno...i morti, i feriti non contiamoli nemmeno... Io partecipo all'azione del 24 maggio a Castagnevizza, che ora è in territorio jugoslavo. La nostra batteria aveva un raggio limitato d'azione ( le mitragliatrici tiravano a non più di 6o metri) e quindi dovevamo stare fuori, davanti alle trincee italiane, per essere più vicini agli Austriaci... anche le cannonate della nostra artiglieria però ci prendevano dietro. Quando andavamo all'assalto, se trovavi la collina o un riparo dietro a cui nasconderti salvavi la pelle, altrimenti... bisognava vedere la carneficina... c'erano i mucchi di morti, cominciava a far molto caldo, avevano paura del colera... si metteva fuori la bandiera bianca e ciascuno ritirava i suoi morti... dovevate sentire che odore... si buttava sopra calce e creolina per disinfettare...

(Gildo chiosa)
I nostri comandi la pensavano diversamente. Il Generale Luigi Cadorna, ad esempio, aveva le idee molto chiare in proposito.

(Voce fuori campo, perentoria e sgradevole che pare sorprendere Gildo. Appare un grande ritratto di Cadorna che incombe sulla scena e poi a seguire il murales di Orgosolo sempre su Cadorna)

Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia all’attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice […].

"Le sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini”.

"Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi".

"Chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto prima che si infami dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato da quello dell’ufficiale" (11)

(Gildo prosegue)
I Generali, tutti e di tutti i fronti, la pensavano allo stesso modo, così “conducevano le truppe” sul campo di battaglia. In Italia c'era Cadorna, a Verdum il Generale francese Joseph Joffre e quello britannico Sir Douglas Haig: tutti la pensavano esattamente (ndr scandisce la parola) allo stesso modo.
Intanto eravamo noi a correre verso le mitraglie, i campi minati ed i fili spinati...
L'unica consolazione che ci rimaneva era quella di scrivere a casa, almeno quelli che lo sapevano fare e gli altri si facevano aiutare o andavano alle scuole militari e li vedevi impacciati a tenere, nelle loro mani da contadini, la penna. Almeno a qualcosa è servita la guerra e c'era una corrispondenza che nemmeno te la immagini...

(Gildo riprende il suo racconto)
Tornando un giorno dalla trincea, trovo uno di Buscate, un certo Miramonti e gli dico: " A questo punto gioco una carta...scappo!, se non ce la faccio mi fucileranno...".
Erano 27 mesi che ero al fronte...era il 29 luglio 1917, avevo 17 franchi in tasca...finire prigioniero c'era il pericolo di morire di fame. Questo Miramonti mi aveva detto che di disertori ce n'erano tanti anche tra gli ufficiali... di fronte alla morte...

Lettera di un generale dissidente a Giolitti, 1915

"Vi sono truppe allo scoperto, sotto il tiro del cannone nemico, con 15° sotto zero, e si vuole che avanzino. Muoiono gelati a centinaia e ciò è ignorato dal paese. Gli ufficiali più arditi hanno crisi di pianto di fronte alla vanità degli sforzi, davanti all'impossibile. Sull'Isonzo si muore a torrenti umani e nulla finora si è raggiunto."


B.N. anni 25, soldato; condannato a 4 anni di reclusione per lettera denigratoria, 1916

"Non si creda agli atti di valore dei soldati, non si dia retta alle altre fandonie del giornale, sono menzogne. Non combattono, no, con orgoglio, né con ardore; essi vanno al macello perché sono guidati e perché temono la fucilazione. Se avessi per le mani il capo del governo, o meglio dei briganti, lo strozzerei".


Dal fronte occidentale, 1916

"Sono ritornato dalla più dura prova che abbia mai sopportato: quattro giorni e quattro notti, 96 ore, le ultime due immerso nel fango ghiacciato, sotto un terribile bombardamento, senza altro riparo che la strettezza della trincea, che sembrava persino troppo ampia. I tedeschi non attaccavano, naturalmente, sarebbe stato troppo stupido. Era molto più conveniente effettuare una bella esercitazione a fuoco su di noi; risultato: sono arrivato là con 175 uomini, sono ritornato con 34, parecchi quasi impazziti".

"Ma ancora un fatto le voglio raccontare: un giorno ci hanno messo tutti in riga perché hanno detto che ci facevano la decimazione, per via che molti erano disfattisti... "Soldati - ha gridato il colonnello - sarete fucilati uno ogni dieci, se non dite i nomi di quei vigliacchi che fanno i disfattisti, mettendo in grave pericolo la patria" e subito hanno incominciato a contare, fuori uno ogni dieci. Però, neanche un soldato ha fatto la spia e, alla fine, non hanno fucilato nessuno, avevano fatto solo per dare un avvertimento; ma, a guardare, disfattisti eravamo tutti, perché in trincea si sentivano solo lamentele, bestemmie contro il governo e contro i comandi, ostie continue contro la guerra e quelli che l'avevano voluta.."

(Gildo riprende il suo racconto)
Eravamo accampati vicini all'Isonzo...c'erano le sentinelle che curavano e io dico: "Vado nel campo di granoturco a fare un bisogno" ...non sono più tornato...lì si trattava della vita o della morte perchè se mi prendevano mi fucilavano...tutte le feste a Cervignano i disertori (12), o chi aveva commesso atti di insubordinazione, li mettevano al muro e chiamavano anche gli altri soldati a vedere...c'erano la 1°, la 2° linea, ma la terza era dei carabinieri se no scappavano tutti...

Pochi giorni prima della mia diserzione c'era stata la diserzione della Compagnia Catanzaro. “Dopo diverse battaglie sul Carso, nell’estate del ’17, la Brigata Catanzaro è mandata in riposo a Santa Maria la Longa, quando si sparge la notizia che saremmo stati mandati di nuovo in prima linea. Ne venne fuori una protesta che si tramutò in vera e propria rivolta la sera del 15 luglio. Tutto parte dai soldati del 141° e si estende poi anche a quelli del 142°, con scontri a fuoco con fucili e bombe a mano.
A sedare la rivolta arriva una compagnia di Carabinieri e si registrarono una decina di morti e una trentina di feriti.
Terminato l’ammutinamento scattano le fucilazioni per quattro soldati colti con i fucili ancora caldi e per altri dodici scelti per ciascun reggimento per decimazione.
Il 16 luglio i soldati vengono fucilati sul muro del Cimitero di Santa Maria La Longa. (13)
[Appare la foto del muro del cimitero e dello stemma della Brigata Catanzaro].

(Gildo riprende il suo racconto)
Dopo varie peripezie, ed incontrando durante il viaggio altri disertori e fuoriusciti, riesco a tornare a casa, ma il problema era dove nascondersi per sfuggire all'arresto. Decido di attraversare il Ticino per cercare rifugio nella fattoria Rosalia presso Cerano, dove risiedeva un amico. Passo alcuni mesi lavorando come contadino fino a quando il 17 ottobre 1917 sono arrestato ( una quoi carogna m'ha denunciàa) e mi hanno portato al carcere di Novara .
Nel carcere del castello eravamo 3-4 disertori...faccio lì tre mesi. In quel periodo c'è stata la disfatta di Caporetto. Cadorna ha emesso il decreto per far uscire tutti quelli che erano in prigione in attesa di processo per inviarli ai centri di raccolta per essere “riabilitati”.
Alla vigilia di Natale del 1917 entra un secondino e dice a noi tre disertori di prepararci che dobbiamo partire per una destinazione ignota. Un cellulare proveniente da Cuneo e passando per Torino, Vercelli, Novara, raccoglie tutti i detenuti. Eravamo 300-400 e veniamo portati al carcere Parini di Milano. Stiamo 5-6 giorni e all'inizio del 1918 veniamo destinati tutti a Castelfranco Emilia, raggruppamento tra disertori e sbandati. Eravamo 85.000!
Il capitano, ad uno ad uno, ci interroga con il nostro foglio di matricola in mano. Ci chiede nome, cognome, cosa eravamo (se sbandati, o disertori).
Gli sbandati erano quelli che sono scappati durante la ritirata di Caporetto; metà esercito è scappato quando i Tedeschi sono venuti avanti. Questi soldati, questi fanti erano stremati, erano 2 o 3 anni che erano là, pieni di pulci, che passavano da un bivacco all'altro ad alta quota... erano sempre gli stessi che facevano la guerra.

Dopo qualche giorno viene il Tenente Generale Giardino in persona ad interrogarci (14). Mi chiede se ero disposto ad andare al fronte; io rispondo che avevo già fatto la domanda: dovevamo toglierci da quel posto per poter scappare di nuovo, altrimenti ci portavano al Piave ed era finita. Ne scappavano tanti anche da lì benché ci fossero un sacco di carabinieri.
Il Tenente Generale Giardino dopo aver interrogato tutto il Battaglione in 3 giorni, ci fa radunare nella Piazza e, salito sul balcone del Municipio, dice: "Ragazzi, quest'anno finisce la guerra, non allontanatevi più, non scappate!". Poi sono stato destinato in Albania …
In Albania sono colpito dalla malaria come tanti altri della mia Compagnia, poi, durante la stessa estate, compio un “atto di valore”: recupero le salme di due militari affogati nel fiume. Nel luglio del '18 la Compagnia Speciale è sciolta e sono destinato all'87° Fanteria di Palermo, ma la malaria si fa sentire e sono costretto a ricoverarmi all'Ospedale di riserva Rosolino Pilo di Palermo che era stato allestito dentro il Palazzo Sclafani.
(inizia un racconto come se parlasse di un sogno. Appare l'affresco e poi via via i particolari indicati nel racconto)
Un pomeriggio di agosto dentro i cameroni c'era un caldo e un puzzo insopportabile, da far voltare lo stomaco. Sono sceso giù in cortile e lì, su un muro in alto, ho visto, all'improvviso, questo grande affresco che mi ha lasciato a bocca aperta (pausa. Apre la bocca e appare l'affresco del Trionfo della morte 15). Non so se è stata la febbre della malaria o un sogno, ma mi è sembrato proprio di vedere quel cavallo scheletrico saltare dentro il bellissimo giardino con in groppa la morte che colpiva con le sue frecce imperatori, papi, vescovi, frati, poeti, cavalieri e damigelle. Da un lato c'era dipinta povera gente che invocava di interrompere le proprie sofferenze, ma veniva ignorata. Dall'altra parte , vicino alla fontana, c'era invece un gruppo di signori vestiti elegantemente che parlavano e scherzavano tra loro, senza occuparsi di quello che succedeva lì accanto: loro vivevano in un altro mondo dorato. Indifferenti alle sofferenze di tanti, voltavano lo sguardo da un'altra parte e continuavano a suonare l'arpa come se nulla potesse toccarli.
Tutto mi è sembrato chiarissimo ! Ed era chiaro anche da che parte stavo io...

E intanto finisce la guerra, ma non le mie peripezie: c'è ancora un capitolo della mia storia.

Militare l'è ritornato (frammento di “Sento il fischio del vapore” ) (16)

Militare l'è ritornato con la spada insanguinata
Militare l'è ritornato con la spada insanguinata
Se mi ritroverà già maridada,
ohi che pena, ohi che dolor!
Se mi ritroverà già maridada,
ohi che pena, ohi che dolor!

Oh che pena, oh che dolore,
che brutta bestia è mai l'amore!
Oh che pena, oh che dolore, che passione l'è mai l'amore
Oh che pena, oh che dolore, che passione l'è mai l'amore
La ricciolina, povera tösa
e il militare l'abbandonò.
La ricciolina, povera tösa
e il militare l'abbandonò.

(Gildo riprende il suo racconto)
Quando sono guarito, devo tornare al corpo di destinazione e lì rimango altri otto mesi. Però mi toccava il giudizio per la diserzione e vengo chiamato a Torino davanti al Tribunale Militare (ndr scandisce).
La situazione è grigia per me: l'imputazione di "diserzione di fronte al nemico" mi potrebbe portare davanti al plotone di esecuzione e perciò decido di fingermi pazzo. Era inutile che rispondessi al Giudice che ero stufo della guerra, che avevo paura, che ero tornato a casa per rivedere la fidanzata o la mamma... gli risposi che non ricordavo niente, proprio niente". Ero diventato anch'io uno “scemo di guerra”.
Il Giudice mi condanna a tre anni di carcere militare condonati per il lungo periodo di servizio al fronte. Emessa la sentenza, il Giudice mi chiede se ho qualche cosa da dichiarare ed io:
"Devo dire, signor Pubblico Ministero, che la guerra mi ha rovinato la salute: ho preso la malaria in Albania e sono stato ricoverato tre volte all'Ospedale Rosolino Pilo di Palermo".
"Tuttavia - mi interrompe il Pubblico Ministero - voi siete un traditore della patria! [ndr con enfasi queste ultime tre parole]
"Sono stato più traditore io – gli rispondo - che ho fatto 38 mesi al fronte o gli italiani che sono stati nelle retrovie e non solo non hanno fatto la guerra, ma hanno riempito anche i loro portafogli?"
Il Tribunale mi ha ammesso al premio di smobilitazione riservato ai reduci di guerra. E son tornato a casa, libero, finalmente, di fare la mia vita.

(Voce di donna)
«La guerra non si vince con la vittoria. E se anche prendessimo il San Gabriele? Se prendessimo il Carso e Monfalcone e Trieste? A che punto si sarebbe? Avete visto tutte quelle montagne quest’oggi? Credete che possiamo prenderle tutte anche quelle? Solo se gli austriaci smettono di combattere. Una delle due parti deve smettere di combattere. Perché non smettono di combattere? Perché non smettiamo di combattere?
...
Perfino i contadini sanno che non si deve credere in una guerra.
Tutti odiano questa guerra. » (17)

[Appare l'immagine del monumento al fante-contadino di Piazza Baracca a Buscate]

E voi (pausa puntando il dito verso il pubblico) che ne pensate della guerra ?


[Appare il murales di Orgosolo con la frase di David Maria Turoldo tratta da “Salmodia contro le armi” e parte la canzone dei Baraban “Fuoco e mitraglia” raccolta da Roberto Leydi a Ravenna] (18)


[Appare un cartello che riporta l'Art. 11 della Costituzione italiana:
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali...”]


Partono i titoli di coda con la canzone “Fuoco e mitraglia”


Non ne parliamo di questa guerra
che sarà lunga un'eternità;
per conquistare un palmo di terra
quanti fratelli son morti di già!

Fuoco e mitragliatrici,
si sente il cannone che spara;
per conquistar la trincea:
Savoia ! - si va.

Trincea di raggi, maledizioni,
quanti fratelli son morti lassù!
Finirà dunque 'sta flagellazione?
di questa guerra non se ne parli più.

O monte San Michele,
bagnato di sangue italiano!
Tentato più volte, ma invano
Gorizia pigliar.

Da monte Nero a monte Cappuccio
fino all'altura di Doberdò,
un reggimento più volte distrutto:
alfine indietro nessuno tornò.

Fuoco e mitragliatrici,
si sente il cannone che spara;
per conquistar la trincea:
Savoia ! - si va.




FINE


Il presente lavoro si è liberamente ispirato alla testimonianza di Egidio (Gildo) Fraschina (n. a Buscate il 23/10/1893 e morto il 22/07/1988) raccolta con un' intervista del 27 marzo 1983 a cura del Circolo culturale Gianni Ardizzone di Buscate e pubblicata con il titolo “E venne la Grande Guerra”, in "Contrade Nostre", vol. III, pp. 1110-113.

I racconti di filanda sono tratti da due interviste a Giulina Gianella (n. 1893), intervista del 19 dicembre 1982 e Lina De Vecchi (n.1901), intervista del 20 dicembre 1981 sempre pubblicate su Contrade Nostre sotto il titolo “E lé la và in filanda”.



Titoli di coda

Gildo va alla guerra
La Grande Guerra vista dalla parte di un fante

Sceneggiatura e regia
Guglielmo Gaviani

Interpreti (in ordine di apparizione)
Sacha Oliviero (Gildo)
Annalisa Restelli
Lucia Dumi
Stefano Spiniello
Pinu Cardini
Alice Luoni

Riprese ed editing video
Cristiano Piattoni
Valeria Valli

Riprese effettuate presso la Polisportiva Bienatese




© guglielmo gaviani 2015
1) spazzole ruvide per lavare i panni
2) Le parti in corsivo sono tratte dalla testimonianza di Egidio (Gildo) Fraschina (n. a Buscate il 23/10/1893 e morto a Buscate il 22/07/1988). Intervista del 27 marzo 1983 a cura del Circolo culturale Gianni Ardizzone di Buscate e pubblicato con il titolo “E venne la Grande Guerra”, in "Contrade Nostre", vol. III, pp. 111-113.
3) I racconti di filanda sono tratti da due interviste a Giulina Gianella (n. 1893), Intervista del 19 dicembre 1982 e Lina De Vecchi (n.1901), Intervista del 20 dicembre 1981 pubblicate in “Contrade Nostre” sotto il titolo “E lé la và in filanda”.
4) In Guglielmo Gaviani, “Sa poo? Avònti l'é vartu !” Editrice Leoni, 1988, p. 52
5) Raccolto a S. Ilario d'Enza, vicino Parma, in data non precisata e nel repertorio del Gruppo Incanto e presente nel loro spettacolo "Italiens, Quand les immigrés c'était nous"
6) Il Quarto Stato è un dipinto realizzato nel 1901, inizialmente intitolato Il cammino dei lavoratori. E' la progressiva rielaborazione del medesimo soggetto. La prima versione si intitolava gli Ambasciatori della fame, il secondo quadro è Fiumana e infine Il cammino dei lavoratori del 1898 che è il bozzetto preparatorio al lavoro de Il quarto stato.
7) Giovanni Papini, dal programma politico futurista pubblicato su “Lacerba” in previsione delle elezioni del 1913
8) Autore sconosciuto, 1916. La versione è cantata è
9) Matilde Serao, Parla una donna – Diario femminile di guerra, Treves editore , 1916 .
Come afferma il contemporaneo Antonio Gibelli (“La Grande Guerra degli Italiani 1915-1918”) “…non meno importante, fu la dilatazione dei compiti e dei ruoli delle donne nelle campagne: secondo calcoli attendibili, su una popolazione di 4,8 milioni di uomini che lavoravano in agricoltura, 2,6 furono richiamati alle armi, sicché rimasero attivi nei campi (a parte le scarse licenze) solo 2,2 milioni di uomini sopra i 18 anni, più altri 1, 2 milioni tra i 10 e i 18 anni, contro un totale di 6,2 milioni di donne superiori ai 10 anni. Inevitabile fu l'occupazione femminile di spazi già riservati agli uomini, e contemporaneamente lo straordinario aggravio di fatica e di responsabilità. Le donne videro ancora dilatarsi i tempi e i cicli abituali del lavoro (col coinvolgimento delle più piccole e delle piu vecchie), e dovettero coprire mansioni dalle quali erano state tradizionalmente esentate”.
10) Padre Agostino Gemelli citato da Antonio Gibelli, L'officina della guerra, Universale Bollati Boringhieri.
11) Circolare n. 3525 del 28 settembre 1915 del Generale Luigi Cadorna. Segue la “famosa” Circolare del 25 Febbraio 2015 con oggetto “Attacco frontale e ammaestramento tattico” sempre del Capo dello Stato Maggiore dell'Esercito Luigi Cadorna.
12) Sono ufficialmente 750 i fucilati a seguito di sentenze dei tribunali militari di guerra, mentre è imprecisato il numero di militari passato alle armi “per decimazione” durante la grande guerra. Il Pubblico Ministero della Procura di Padova, dr. Sergio Dini ha inviato una lettera nel luglio del 2014 al ministro della difesa Roberta Pinotti nella quale chiede “un provvedimento clemenziale di carattere generale, a favore di tutti i condannati a morte del I° conflitto mondiale”. Riabilitare la memoria dei soldati fucilati e decimati durante il grande massacro 15-18 è una chiave morale per un centenario che, altrimenti, rischia di essere solo retorico.
13) Giuseppe Mimmi è l'autore di una Memoria di guerra che racconta tra l'altro l’ammutinamento e la successiva decimazione della Brigata Catanzaro. La sua testimonianza è stata consegnata all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano nel 2000.

14) Il generale Gaetano Giardino è stato comandante della 2° e poi della 5° armata successivamente al comando della 48ª divisione di fanteria, schierata di fronte a Gorizia. Fu proposto da Cadorna come Ministro della Guerra in seguito alla crisi del gabinetto Boselli, al posto del collega Paolo Morrone.
15Il Trionfo della Morte è un affresco staccato nel 1944 (misure 600x642 cm) conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. L'opera proviene dal cortile di palazzo Sclafani a Palermo.
16In Guglielmo Gaviani,Sa poo? Avònti l'é vartu !” Editrice Leoni, 1988, p. 21. Informatrici Angela Gianella (Panöa) n. 1893 e Giuseppina Merlotti (Pinéta) n. 1899, registrazione del dicembre 1980-gennaio 1981.
17) cft Ernest Hemingway, Addio alle armi, Oscar Mondadori, Traduzione di Fernanda Pivano.

18) Le località menzionate nelle varie versioni del canto ne fanno risalire la composizione tra la fine del 1915 e l'inizio del 1916. Alle pendici di Monte San Michele era allora situato un trincerone italiano, che verso valle andava al bosco Cappuccio (qui chiamato "monte Cappuccio"), e verso monte al bosco Lancia ed alle trincee delle Frasche e dei Razzi. La conquista di quest'ultima (qui citata come "Trincea dei Raggi"), il 16 dicembre 1915, costò alla brigata Sassari la morte dei due terzi dei suoi soldati. Canti come questo, da cui traspare - con inattesa sincerità - un sentimento doloroso verso l’obbligo del servizio militare e verso la guerra, non sono molto frequenti nel repertorio dei soldati, dato che la retorica celebrativa dei canti militari impone e diffonde ben altri testi.]

Licenza Creative Commons
Licenza Creative Commons
Gildo va alla guerra diGuglielmo Gaviani è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
Based on a work athttp://workboxdiguglielmogaviani.blogspot.it/2015/12/gildo-va-alla-guerra.html.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili pressohttp://workboxdiguglielmogaviani.blogspot.it/2015/12/gildo-va-alla-guerra.html.

Nessun commento:

Posta un commento