Gildo
va alla Guerra
(La
Grande Guerra vista da un fante)
di Guglielmo Gaviani
(Gildo
entra con una bicicletta alla quale sono legate scope, spazzole e una
grossa cassetta di legno sul portapacchi. Si guarda in giro e poi
inizia a raccontare)
Mi
chiamo Egidio Severino, ma in casa come in paese mi hanno
sempre chiamato Gildo (ndr scandisce fiero il nome come fosse
un soprannome di battaglia). Carlo era mio padre e la mamma si
chiamava Enrichetta. Figlio di pochi ma onesti genitori
(scandisce)...
Sono
nato a Buscate nel 1893 in quella che allora si chiamava Via Valle al
numero 18 nel rione di Santa Maria.
Tutti
mi conoscono in paese per la mia attività di artigiano e venditore
ambulante di scope, brustii (1)
e spasatun di saggina (che la raccolgo giù in Valle Ticino). Le
spazzole le produco io stesso nel mio laboratorio e poi carico la
mercanzia sulla bicicletta e vado in giro nei paesi, casa per casa,
a venderla e non torno più fino a quando non l'ho venduta tutta.
Questa è la vita che mi piace fare: libero di andare e venire e
sempre a contatto con la gente.
In
vita mia ho fai un buldél da misté fin da quando ero un
bagai voltu inscì (fa segno
con la mano l'altezza).
A
11 anni ho cominciato a lavorare a Malvaglio come magutt per 50 ghei
al dì, poi sono andato - un anno - dal 1905 al 1906, alla grande
filanda del signor Eduardo Imhoff di Buscate a fare la scuinéra:
eravamo 7-8 ragazzi che facevano lo stesso lavoro delle ragazze più
giovani.(2)
In
Filanda, figuratevi, allora c'erano 450 donne al lavoro al tempo
dell'ammasso e gli uomini in totale erano non più di dieci.
(Gildo
fa qualche passo e si vede una donna vestita con un'ampia gonna nera
e sopra porta un grembiule bianco. E' seduta su una cadrega
piccola e sferruzza. I due si
scambiano uno sguardo e poi lei parla...)
(3)
Facevamo
dieci ore al giorno in filanda Imhoff: suonava il primo fischio ed
entravamo dal portone sulla strada per le sei e poi alle sei e mezzo
dovevamo essere al nostro posto, quando suonava il secondo fischio.
Lavoravamo fino a mezzogiorno e dalla una alle sette di sera. DIECI
ore (ndr scandisce le parole).
Noi
scuinèr, prendevamo 65 ghèi al giorno, le filère
avevano la categoria superiore e prendevano 30-35 franchi al mese (a
secondo delle giornate che lavoravano).
La
giornata in filanda era così: ci trovavamo davanti al portone della
filanda al primo fischio e quando lo aprivano le prime che entravano
erano le scuinère che correvano subito a prendere le cassette delle
filère e le mettevano là dietro le bacinelle dove erano sedute, che
quando arrivavano avevano il lavoro pronto e guai a ritardare:
c'erano delle filère davvero prepotenti che ci trattavano
male, ci insultavano ci dicevano di sbrigarci che il lavoro non
poteva fermarsi. Le filère mettevano i bozzoli dei bachi nell'acqua
bollente delle bacinelle e trovavano il capo del filo e lo univano
insieme agli altri per filare la matassa.
Alle
otto arrivava da casa la zuppa nelle calderine e la passavano da due
sportelli che si aprivano nel portone d'entrata; era compito di tre o
quattro scuinère andare a prendere le calderine e portarle alle
filère. Tante donne si erano alzate all'alba per fare i
lavori di casa, governare le bestie nella stalla, le galline nel
pollaio, dare l'erba ai conigli e in più c'era da fare anche qualche
lavoro nell'orto. La giornata era lunga e alle otto avevano già
fatto una giurnò da lauò, noi povere donne.
Nel
pomeriggio portavano da casa i bambini per l'allattamento: c'era uno
stanzino dove le donne che avevano i bambini piccoli potevano
allattare: per loro era un sollievo; lasciavano lì il lavoro tutte
sorridenti e per una mezzora se ne stavano con la loro creatura. Le
ore erano tante e non tornavano fino alle 7 di sera a casa e quindi
il padrone aveva pensato di fare così. Le donne stavano a casa in
maternità solo 40 giorni dopo il parto , ma prima niente e diverse
volte qualcuna è stata accompagnata a casa a partorire con in
caratùn perché lo stava facendo nascere in filanda quel
povero bambino.
Potevamo
chiedere un permesso per stare a casa dalla filanda solo al tempo che
il baco faceva la furia e bisognava star dietro a dargli la foglia
giorno e notte. I bachi li coltivavamo in casa e gh'ea una spüsa,
ma una spüsa che io e il mio fratellino andavamo a dormire
nel fienile, ma ci portavamo un sacco per coprirci la faccia perché
lì giravano topi grossi come gatti.
Questa
era la vita in filanda, ma eravamo giovani e si cantava che era una
bellezza, tutto il giorno, per non sentire la fatica del lavoro e ci
sentivano fino in piazza da come cantavamo forte.
***
Si sente in lontananza la canzone “Marito mio son fresca e son
gelata”*** (4)
Marito
mio marito son fresca e son gelata
sposina
la mia cara quantí füs
c'ha te filaa
ne
ho filato uno - và giù e và lavora
che
questa non è l'ora di venire a letto con me -
Marito
mio marito son fiesca e son gelate
sposina
la mia cara quanti ğs c'ha te filaa
ne
ho filati due - và già e và lavora
che
questa non è l'ora di venire a letto con me -
ne
ho filatí tre...quattro...cínque...sei...
Marito
mio marito sonƒresca e son gelata "
.sposína
la mia cara quanti ğs c'ha te filaa
me
n'ho filato sette – tra ƒöra
la ƒasètta
e
valsa la gambètta e poi vieni a dormire con me.
(Gildo
riprende il suo racconto)
Poi
son venuto via dalla filanda, che la vita di fabbrica non faceva per
me.
Nel
1907 ho ripreso il lavoro di manovale a Borsano: giravamo, per lavori
di edilizia, Busto, Senago, Borsano e Legnano.
Allora
si raccontavano tante storie e questa è una di quelle che parla
propri di noi, di noi magut...
(Voce
femminile)
Ul
Signur di puariti al guòrda da chénola porti
I
tempi indrée i magutt indéan lauò a Busti a pée (ndr fa segno col
pollice verso Gildo). A paséan in di buschi dadré da a Valoscia e
indèan giò tacò d'ul cimiteri da Sinàgu. Liliscì pisé innansi
da a gésa ghéa nu ul punti tanmé adàss, a ghéa ul pasogiu a
livéll da a Nord. Traversòo chél lì te séa subal a Busti.
Quandu
i ciapéan a quindasò a vignéan a còo tul cuntènti. Pagamèntu
che lì dadrée dul cimiter da Sinàgu, in chi buschi lì, ghéa
sampar in gir un quoi malnotu cal spicéa i pulastar da paò.
I
magutt a turnéan strochi tanmé i bésti, ca l'éa giò scur, e a
caminéan a svaltu. Arivò liliscì a truéan i lodar che gha déan
una méda da boti e gha purtéan via tuci i dané.
Una
volta, doo e tree i magutt han pansò una roba: han metù-su su una
pionta un crucefiss cun un cartàl con scritu bal in grondi:
Dio
ti vede
Un
quoi vun l'ha comenciò a ciapai in gir e insci a filastroca di fiò
l'é diantòo :
O
Signur di puariti
chél
di sciur al ghò i curniti
chél
di frò l'é tul strasgiòo
chél
di munighi l'é tul giustòo
e
chél di magutt l'é stòi gratòo
(ndr
fa il segno del rubare con la mano)
***Traduzione
per i sottotitoli***
Tanti
anni fa i muratori andavano a lavorare a Busto a pée (a piedi).
Passavano nei boschi dietro alla Valascia e andavano giù per la
strada di campagna vicino al cimitero di Sacconago. Più avanti della
chiesa del paese non c'era ancora il ponte sulla ferrovia come
adesso, allora c'era il passaggio a livello. Attraversato quello
erano subito arrivati a Busto.
Quando
prendevano la quindicina, i magutt tornavano a casa tul cuntenti,
peccato che ad aspettarli dietro al cimitero di Sacconago c'erano dei
malintenzionati che li aspettavano per spennarli.
I
muratori tornavano stanchi come bestie dal lavoro, che era già buio
e camminavano svelto. Arrivati lì però trovavano i ladri che gli
davano una mano di botte e gli portavano via tutto.
Una
volta , due , tre e allora i muratori hanno appeso su una pianta, ben
in alto, un crocefisso. Poi hanno attaccato un cartello con su
scritto:
“Dio
ti vede”.
E
così qualcuno ha cominciato a prenderli in giro, i magutt, e la
filastrocca che si diceva i bambini è diventata così:
O
Signur di puariti
chél
di sciur al ghò i curniti
chél
di frò l'é tul strasgiòo
chél
di munighi l'é tul giustòo
e
chél di magutt l'é stòi gratòo
(Gildo
riprende a raccontare)
Te
capì ma s'éan cunsciòo ? Ma ciapean par ul cü anca i fiö
e i don...
A
17 anni mi son deciso a partire per la Germania a lavorare nelle
miniere di ferro dell'Alsazia Lorena e lì ho fatto 3 anni di mina.
Hirondelles
(rondinelle) ci chiamavano i francesi (ndr fa segno con le mani).
Partivamo dall'Italia ad Aprile per la Francia, per la Germania e la
Svizzera e tornavamo a casa a Ottobre con in tasca un quoi froncu.
Quando arrivavamo in quei paesi di minatori, l'accoglienza non era
delle migliori: quelli del posto ci guardavano male, pensavano che
gli rubavamo il posto di lavoro. Ma noi eravamo più poveri di loro
se partivamo dal nostro paese e accettavamo di andare giù nelle
gallerie a scavare carbone, a sparare la mina. Scendevamo nei pozzi
bianchi e tornavamo su neri, tutti i santi giorni. Anche il mangiare
poi sapeva di carbone. E quell'odore delle lampade a carburo, poi,
mischiato al sudore e alla polvere ti rimaneva addosso anche quando
eri tornato in Italia e lo sentivi che ti raschiava in gola. Loro, i
crucchi, niente, non ci volevano e boicottavano anche i negozi
e i bar che frequentavamo noi, spaccavano le vetrine a sassate,
mettevano cartelli con su scritto “qui gli italiani non devono
entrare”.
Non
parliamo poi quando sono nati i Sindacati nelle miniere... La colpa
era degli italiani, naturalmente, che avevano portato queste idee
sovversive. Dicevano che erano stati quelli della Società Umanitaria
di Milano che avevano mandato qui apposta uno di loro che si chiamava
Tullio Cavallazzi. Cosa dovevano fare se la paga era poca e il lavoro
ta maséa e gh'ea da giunto a pell a laurò suta a tàra?
Nel 1905-06 avevano cercato di alzare la testa: allora si che i
lavoratori l'hanno fatta tremare la miniera, altro che la mina.
C'erano stati scioperi, gli uomini non scendevano giù a lavorare,
tutti davanti ai cancelli, la lotta era stata düra
ma düra
e alla fine... i minatori avevano perso. I giornali allora si erano
scatenati e avevano preso a darci addosso dicendo che “la
situazione deve essere RISANATA a colpi di espulsione”,
dovevano liberarsi SUBITO dei sovversivi. E chi hanno spedito a casa
? I lavoratori italiani e quelli polacchi, naturalmente !
Questi
tedeschi che non potevano vedere gli italiani ce l'avevano su con
tutti gli stranieri e anche con gli ebrei, non ho mai capito bene
perché. Ma poi via quelli, è arrivata un'altra ondata, siamo
arrivati noi: quando c'ero io in Alsazia almeno 30-40 erano di
Buscate che lavoravano in miniera o a fare gli sterratori con badile
e carriola: Non c'era tanto da scegliere, ci toccava andare lì a
lavorare...
[Di
sottofondo intanto cresce la musica della canzone “Minatori non
partite”] (5)
Minatori
non partite
Minatori
non partite
non
andate via di qua,
non
lasciate qui la mamma
e
i vostri piccoli tesor.
Per
il beco di quattrino
ho
lasciato il casolar,
tu
non scrivi e più non torni
e
mai per sempre tornerai..
Ritorna
presto, amor
dalla
miniera
un
forte abbraccio ancor
dal
tuo piccino che piange per te..
Minatori
non partite
non
andate via di qua,
non
lasciate qui la mamma
e
i vostri piccoli tesor.
Il
piccino si è ammalato
chiama
sempre il suo papà
che
non scrive e più non torna
e
mai per sempre tornerà..
Ritorna
presto amor
dalla
miniera
un
forte abbraccio ancor
dal
tuo piccino che piange per te…
***Cambio
di inquadratura***
(Gildo
riprende il suo racconto)
Ho
deciso di venir via dalla mina e così nel '13 sono partito per
Parigi. Là c'era mio zio, con altri di Buscate, e ho lavoravo anche
lì come muratore...
6-7
mesi dopo c'è stata la mobilitazione generale. Quando è scoppiata
la guerra ero in Francia e gli emigranti li hanno mandati a casa
tutti...
Se
ne raccontano tante sulla Grande Guerra: ognuno l'ha
raccontata come ha voluto, questa storia. E, sopratutto, ce l'hanno
raccontata quelli che la guerra l'hanno voluta con tutte le loro
forze. Sapete? Erano in tanti a volerla questa maledetta guerra e
tutti avevano i loro BUONI motivi: c'erano quelli che la volevano per
contrastare le pretese dei socialisti, c'erano i sindacalisti
rivoluzionari che la volevano per cacciare Giolitti e c'erano anche
quelli che pensavano di concludere l'Unità d'Italia.
Tutti
gridavano nelle piazze che la guerra era l'unica soluzione
possibile e quella che avrebbe risolto tutti i mali.
Figuratevi
che non importava nemmeno molto “contro” chi farla questa guerra:
su questo c'erano delle idee molto diverse (c'era chi la voleva
contro la Francia e chi contro l'Austria), forse perché il vero
avversario non era straniero.
La
guerra da combattere (quella vera) era qui, dentro
all'Italia: tutti avevano messo nel mirino l'avversario e la guerra
serviva per annientarlo.
***
Appare “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo ***
6
(Voci
fuori campo. Gildo si guarda in giro come spaventato e si irrigidisce
sull'attenti man mano che sente le voci )
«
Il
sangue è il vino dei popoli forti; il sangue è l'olio di cui hanno
bisogno le ruote di questa macchina enorme che vola dal passato al
futuro - perché il futuro diventi piú presto passato...››.
«La civiltà
industriale, come quella guerresca, si nutre di carogne. Carne da
cannone e carne da macchina. Sangue sul campo e sangue sulla strada;
sangue sotto la tenda e sangue nell'officina. La vita non sale che
gettando dietro di sé, come zavorra, una parte di se stessa ››.
«In verità siamo troppi nel mondo. A dispetto del malthusianismo la
marmaglia trabocca è gli imbecilli si moltiplicano... Per diminuire
il numero di codeste bocche dannose qualunque cosa è buona:
eruzioni, convulsioni di terra, pestilenze. E siccome tali fortune
son rare e non bastano ben venga l'assassinio generale e
collettivo››. Chi odia l'umanità - e come si può non odiarla
anche compiangendola?- si trova in questi tempi nel suo centro di
felicità.. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo
giustifica l'odio e lo consola...››. «La guerra... giova
all'agricoltura e alla modernità. I
campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima
senz'altra spesa di concime...
E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza
pulita fra le vecchie case e le vecchie cose...». «Amiamo la guerra
ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa
- e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e
distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi
››(7).
(Gildo
riprende)
Chi
è stato dentro le trincee, si è congelato sulle montagne del Carso
o è rimasto impigliato nei fili spinati intorno all'Isonzo, ha
assaggiato il fango riverso bocconi dentro la neve sul Monte Grappa,
o asfissiato dal fosgene e dall'yprite sul Monte San Michele, ha
un'idea p r e c i s a di cosa voleva dire “diventare
concime” (ndr dice queste ultime due parole guardando fisso
nella telecamera e poi abbassando gli occhi a terra)
Noi,
povera gente, quella Grande ed eroica Guerra
l'abbiamo persa, comunque.
Non
piacerà a molti, ma questo è il racconto della mia Guerra.
Tornato
dalla Francia, vado al Distretto di Milano e mi destinano al 24°
Fanteria di Novara..lì a Novara faccio 2-3 mesi di addestramento,
poi mi trasferiscono a Intra con tutto il battaglione.... Facciamo 5
mesi...poi c'è la mobilitazione generale. Rientriamo tutti a Novara
perché si doveva partire per il fronte...destinazione ignota..
***Canzone
Addio padre e madre addio (a sfumare dopo la terza strofa)*** (8)
Addio
padre e madre addio,
che per la guerra mi tocca di
partir,
ma che fu triste il mio
destino,
che per l'Italia mi tocca
morir.
Quando fui stato in terra
austriaca
subito l'ordine a me l'arrivò,
si dà l'assalto la baionetta
in canna,
addirittura un macello diventò.
E fui ferito, ma una palla al
petto,
e i miei compagni li vedo a
fuggir
ed io per terra rimasi
costretto
mentre quel chiodo lo vedo a
venir.
"Fermati o chiodo, che sto
per morire,
pensa a una moglie che piange
per me",
ma quell'infame col cuore
crudele
col suo pugnale morire mi fé.
Sian maledetti quei giovani
studenti
che hanno studiato e la guerra
voluto,
hanno gettato l'Italia nel
lutto
per cento anni dolor sentirà.
(Voce di donna fuori campo.
Dolente , ma fiera)
Ma i contadini d'Italia sono
partiti, per la guerra...
E, allora, le contadine
italiane, in estate e in autunno, hanno raddoppiato, triplicato il
loro lavoro quotidiano : le più pesanti, le più dure, le più
estenuanti fatiche degli uomini, esse le hanno assunte, con tacito
coraggio, con muta fermezza, chiudendo nel loro grande cuore - sì,
grande e semplice cuore! - la tristezza e lo sgomento, per l'assente,
per il lontano. Sono mancati gli uomini, alla falciatura, alla
trebbiatura, ai torchi delle ulive, ai mastelli dell'uva : le donne
falciato, e trebbiato, le donne han fatto l'olio e han fatto il
vino...
dalle bimbe di otto anni alle
vecchie di settanta...
Tutte
sono semplici, oscure donne, nella loro tenerezza sanguinante, in
tutte le loro viscere materne, sofferenti di un dolore che non ha
nome e che ha tutti i nomi: tutte non sono state più che madri di
soldati, mogli di soldati, sorelle di soldati. Tutte sono state
solamente delle ignote anime femminili che della loro innumerevole
pena hanno voluto fare un'opera di pietà femminile, di carità
femminile, un'opera di bene, anonima, quasi segreta e pure palese,
un'opera tenace, efficace, di bene, di bene, non altro che di bene !
(9)
(Gildo
riprende il suo racconto)
Il
23° il 24° Fanteria finiscono a Belluno. Stiamo qualche settimana
nelle retrovie, poi partiamo per Longarone, ed infine siamo destinati
a Cortina d'Ampezzo....lì scoppia la guerra il 24 maggio e
avanti...inizia il calvario: andiamo alle Tofane, al Col di Lana, poi
si torna ancora a Cortina, al Monte 3 Croci, al Lago di Misurina, al
Monte Piana...i morti non si contano, è stata una carneficina...
Poi
scendiamo a valle e così passa l'inverno.
A
primavera torniamo a Cortina e saliamo al Passo della Sentinella e
alla Coda Rossa...navigando sempre sui 2000 metri di
altitudine...pieni di pidocchi...stiamo undici mesi in trincea al
Km.24...
La
guerra ci era venuta addosso come una granata, all'improvviso, e non
riuscivamo più a liberarcene...
[Appare
un cartello con scritto: Nella VI battaglia dell'Isonzo, dal 4 al 7
di agosto 1916, muoiono 52.000 soldati italiani e 41.000 austriaci].
(Gildo
continua a raccontare)
Gli
Ufficiale avevano ben presente come erano equipaggiate le truppe per
questa guerra. Ma nessuno ha parlato per paura di essere
accusato di “disfattismo” o per semplice tornaconto personale...
Di opportunisti anche allora ce n'erano tanti, ma tanti...
***
Canzone “O Gorizia tu sei maledetta” nella versione dei
Baraban***
O
Gorizia tu sei maledetta
La
mattina del cinque d'agosto
si
muovevan le truppe italiane
per
Gorizia, le terre lontane
e
dolente ognun si partì
Sotto
l'acqua che cadeva al rovescio
[variante:
che cadeva a rovesci]
grandinavan
le palle nemiche
su
quei monti, colline e gran valli
si
moriva dicendo così:
O
Gorizia tu sei maledetta
per
ogni cuore che sente coscienza
dolorosa
ci fu la partenza
e
il ritorno per molti non fu
O
vigliacchi che voi ve ne state
con
le mogli sui letto di lana
schernitori
di noi carne umana
questa
guerra ci insegna a punir
Voi
chiamate il campo d'onore
questa
terra di là dei confini
Qui
si muore gridando assassini
maledetti
sarete un dì
Cara
moglie che tu non mi senti
raccomando
ai compagni vicini
di
tenermi da conto i bambini
che
io muoio col suo nome nel cuor
Traditori
signori ufficiali
Che
la guerra l'avete voluta
Scannatori
di carne venduta
[altra
versione: 'Schernitori di carne venduta']
E
rovina della gioventù
[altra
versione: 'Questa guerra ci insegna così']
O
Gorizia tu sei maledetta
per
ogni cuore che sente coscienza
dolorosa
ci fu la partenza
e
il ritorno per molti non fu.
(Gildo
commenta)
Pensate
un po' che anche questa canzone era vietata al fronte. Chi la cantava
poteva essere accusato di incitamento alla diserzione ,
definito disfattista e finiva davanti al Tribunale di
guerra. E sapevi come andava a finire; ti metteva al muro davanti al
plotone d'esecuzione...
I
soldati non dovevano pensare, ma buttarsi addosso alle trincee
nemiche e basta. Non dovevano avere nessun dubbio !
(Voce
perentoria fuori campo, dura e perentoria) (10)
"La
miglior qualità del soldato nella guerra di massa e di lunga durata
è appunto l'assenza di ogni qualità: l'essere rozzo, ignorante,
passivo. Solo così è possibile appieno quella trasformazione della
sua personalità che lo rende capace di adattamento alla trincea e
all'assalto, che fa di lui un materiale altamente manipolabile, un
perfetto pezzo della macchina bellica. [...] Il soldato cessa di
essere padre, marito, cittadino, per essere solo soldato.“
(Gildo
riprende il suo racconto)
...e
lì arriva l'ordine che tre Compagnie del 249 Fanteria devono tornare
a Novara a formare una nuova brigata., la brigata Pallanza (era il 20
febbraio del 1917)... dopo vari giri la Brigata è destinata al
Carso. Mi mettono in una piccola sezione di pistole
mitragliatrici...era l'aprile 1917. Cadorna sferra 11 offensive:
dovevate vedere che combattimenti sul Carso per conquistare un
chilometro di terreno...i morti, i feriti non contiamoli nemmeno...
Io partecipo all'azione del 24 maggio a Castagnevizza, che ora è in
territorio jugoslavo. La nostra batteria aveva un raggio limitato
d'azione ( le mitragliatrici tiravano a non più di 6o metri) e
quindi dovevamo stare fuori, davanti alle trincee italiane, per
essere più vicini agli Austriaci... anche le cannonate della nostra
artiglieria però ci prendevano dietro. Quando andavamo all'assalto,
se trovavi la collina o un riparo dietro a cui nasconderti salvavi la
pelle, altrimenti... bisognava vedere la carneficina... c'erano i
mucchi di morti, cominciava a far molto caldo, avevano paura del
colera... si metteva fuori la bandiera bianca e ciascuno ritirava i
suoi morti... dovevate sentire che odore... si buttava sopra calce e
creolina per disinfettare...
(Gildo
chiosa)
I
nostri comandi la pensavano diversamente. Il Generale Luigi
Cadorna, ad esempio, aveva le idee molto chiare in proposito.
(Voce
fuori campo, perentoria e sgradevole che pare sorprendere Gildo.
Appare un grande ritratto di Cadorna che incombe sulla scena e poi a
seguire il murales di Orgosolo sempre su Cadorna)
“Per
attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può
abbattere e si lancia all’attacco un numero di uomini superiore:
qualcuno giungerà alla mitragliatrice […].
"Le
sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini”.
"Il
superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i
recalcitranti ed i vigliacchi".
"Chi
tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà
raggiunto prima che si infami dalla giustizia sommaria del piombo
delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di
vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato da
quello dell’ufficiale" (11)
(Gildo
prosegue)
I
Generali, tutti e di tutti i fronti, la pensavano allo stesso modo,
così “conducevano le truppe” sul campo di battaglia. In Italia
c'era Cadorna, a Verdum il Generale francese Joseph Joffre e quello
britannico Sir Douglas Haig: tutti la pensavano esattamente
(ndr scandisce la parola) allo stesso modo.
Intanto
eravamo noi a correre verso le mitraglie, i campi minati ed i fili
spinati...
L'unica
consolazione che ci rimaneva era quella di scrivere a casa, almeno
quelli che lo sapevano fare e gli altri si facevano aiutare o
andavano alle scuole militari e li vedevi impacciati a tenere, nelle
loro mani da contadini, la penna. Almeno a qualcosa è servita la
guerra e c'era una corrispondenza che nemmeno te la immagini...
(Gildo
riprende il suo racconto)
Tornando
un giorno dalla trincea, trovo uno di Buscate, un certo Miramonti e
gli dico: " A questo punto gioco una carta...scappo!, se non ce
la faccio mi fucileranno...".
Erano
27 mesi che ero al fronte...era il 29 luglio 1917, avevo 17 franchi
in tasca...finire prigioniero c'era il pericolo di morire di fame.
Questo Miramonti mi aveva detto che di disertori ce n'erano tanti
anche tra gli ufficiali... di fronte alla morte...
Lettera
di un generale dissidente a Giolitti, 1915
"Vi sono truppe allo
scoperto, sotto il tiro del cannone nemico, con 15° sotto zero, e si
vuole che avanzino. Muoiono gelati a centinaia e ciò è ignorato dal
paese. Gli ufficiali più arditi hanno crisi di pianto di fronte alla
vanità degli sforzi, davanti all'impossibile. Sull'Isonzo si muore a
torrenti umani e nulla finora si è raggiunto."
B.N. anni 25, soldato;
condannato a 4 anni di reclusione per lettera denigratoria, 1916
"Non si creda agli atti di
valore dei soldati, non si dia retta alle altre fandonie del
giornale, sono menzogne. Non combattono, no, con orgoglio, né con
ardore; essi vanno al macello perché sono guidati e perché temono
la fucilazione. Se avessi per le mani il capo del governo, o meglio
dei briganti, lo strozzerei".
Dal fronte occidentale, 1916
"Sono ritornato dalla più
dura prova che abbia mai sopportato: quattro giorni e quattro notti,
96 ore, le ultime due immerso nel fango ghiacciato, sotto un
terribile bombardamento, senza altro riparo che la strettezza della
trincea, che sembrava persino troppo ampia. I tedeschi non
attaccavano, naturalmente, sarebbe stato troppo stupido. Era molto
più conveniente effettuare una bella esercitazione a fuoco su di
noi; risultato: sono arrivato là con 175 uomini, sono ritornato con
34, parecchi quasi impazziti".
"Ma ancora un fatto le
voglio raccontare: un giorno ci hanno messo tutti in riga perché
hanno detto che ci facevano la decimazione, per via che molti erano
disfattisti... "Soldati - ha gridato il colonnello - sarete
fucilati uno ogni dieci, se non dite i nomi di quei vigliacchi che
fanno i disfattisti, mettendo in grave pericolo la patria" e
subito hanno incominciato a contare, fuori uno ogni dieci. Però,
neanche un soldato ha fatto la spia e, alla fine, non hanno fucilato
nessuno, avevano fatto solo per dare un avvertimento; ma, a guardare,
disfattisti eravamo tutti, perché in trincea si sentivano solo
lamentele, bestemmie contro il governo e contro i comandi, ostie
continue contro la guerra e quelli che l'avevano voluta.."
(Gildo
riprende il suo racconto)
Eravamo
accampati vicini all'Isonzo...c'erano le sentinelle che curavano e io
dico: "Vado nel campo di granoturco a fare un bisogno"
...non sono più tornato...lì si trattava della vita o della morte
perchè se mi prendevano mi fucilavano...tutte le feste a Cervignano
i disertori (12),
o chi aveva commesso atti di insubordinazione, li mettevano al muro e
chiamavano anche gli altri soldati a vedere...c'erano la 1°, la 2°
linea, ma la terza era dei carabinieri se no scappavano tutti...
Pochi
giorni prima della mia diserzione c'era stata la diserzione della
Compagnia Catanzaro. “Dopo diverse battaglie sul Carso, nell’estate
del ’17, la Brigata Catanzaro è mandata in riposo a Santa Maria la
Longa, quando si sparge la notizia che saremmo stati mandati di nuovo
in prima linea. Ne venne fuori una protesta che si tramutò in vera e
propria rivolta la sera del 15 luglio. Tutto parte dai soldati del
141° e si estende poi anche a quelli del 142°, con scontri a fuoco
con fucili e bombe a mano.
A
sedare la rivolta arriva una compagnia di Carabinieri e si
registrarono una decina di morti e una trentina di feriti.
Terminato
l’ammutinamento scattano le fucilazioni per quattro soldati colti
con i fucili ancora caldi e per altri dodici scelti per ciascun
reggimento per decimazione.
Il
16 luglio i soldati vengono fucilati sul muro del Cimitero di Santa
Maria La Longa. (13)
[Appare
la foto del muro del cimitero e dello stemma della Brigata
Catanzaro].
(Gildo
riprende il suo racconto)
Dopo
varie peripezie, ed incontrando durante il viaggio altri disertori e
fuoriusciti, riesco a tornare a casa, ma il problema era dove
nascondersi per sfuggire all'arresto. Decido di attraversare il
Ticino per cercare rifugio nella fattoria Rosalia presso Cerano, dove
risiedeva un amico. Passo alcuni mesi lavorando come contadino fino a
quando il 17 ottobre 1917 sono arrestato ( una quoi carogna m'ha
denunciàa) e mi hanno portato al carcere di Novara .
Nel
carcere del castello eravamo 3-4 disertori...faccio lì tre mesi. In
quel periodo c'è stata la disfatta di Caporetto. Cadorna ha emesso
il decreto per far uscire tutti quelli che erano in prigione in
attesa di processo per inviarli ai centri di raccolta per essere
“riabilitati”.
Alla
vigilia di Natale del 1917 entra un secondino e dice a noi tre
disertori di prepararci che dobbiamo partire per una destinazione
ignota. Un cellulare proveniente da Cuneo e passando per Torino,
Vercelli, Novara, raccoglie tutti i detenuti. Eravamo 300-400 e
veniamo portati al carcere Parini di Milano. Stiamo 5-6 giorni e
all'inizio del 1918 veniamo destinati tutti a Castelfranco Emilia,
raggruppamento tra disertori e sbandati. Eravamo 85.000!
Il
capitano, ad uno ad uno, ci interroga con il nostro foglio di
matricola in mano. Ci chiede nome, cognome, cosa eravamo (se
sbandati, o disertori).
Gli
sbandati erano quelli che sono scappati durante la ritirata di
Caporetto; metà esercito è scappato quando i Tedeschi sono venuti
avanti. Questi soldati, questi fanti erano stremati, erano 2 o 3 anni
che erano là, pieni di pulci, che passavano da un bivacco all'altro
ad alta quota... erano sempre gli stessi che facevano la guerra.
Dopo
qualche giorno viene il Tenente Generale Giardino in persona ad
interrogarci (14).
Mi chiede se ero disposto ad andare al fronte; io rispondo che avevo
già fatto la domanda: dovevamo toglierci da quel posto per poter
scappare di nuovo, altrimenti ci portavano al Piave ed era finita. Ne
scappavano tanti anche da lì benché ci fossero un sacco di
carabinieri.
Il
Tenente Generale Giardino dopo aver interrogato tutto il Battaglione
in 3 giorni, ci fa radunare nella Piazza e, salito sul balcone del
Municipio, dice: "Ragazzi, quest'anno finisce la guerra, non
allontanatevi più, non scappate!". Poi sono stato destinato in
Albania …
In
Albania sono colpito dalla malaria come tanti altri della mia
Compagnia, poi, durante la stessa estate, compio un “atto di
valore”: recupero le salme di due militari affogati nel fiume. Nel
luglio del '18 la Compagnia Speciale è sciolta e sono destinato
all'87° Fanteria di Palermo, ma la malaria si fa sentire e sono
costretto a ricoverarmi all'Ospedale di riserva Rosolino Pilo di
Palermo che era stato allestito dentro il Palazzo Sclafani.
(inizia
un racconto come se parlasse di un sogno. Appare l'affresco e poi via
via i particolari indicati nel racconto)
Un
pomeriggio di agosto dentro i cameroni c'era un caldo e un puzzo
insopportabile, da far voltare lo stomaco. Sono sceso giù in cortile
e lì, su un muro in alto, ho visto, all'improvviso, questo grande
affresco che mi ha lasciato a bocca aperta (pausa. Apre la bocca e
appare l'affresco del Trionfo della morte 15).
Non so se è stata la febbre della malaria o un sogno, ma mi è
sembrato proprio di vedere quel cavallo scheletrico saltare dentro il
bellissimo giardino con in groppa la morte che colpiva con le sue
frecce imperatori, papi, vescovi, frati, poeti, cavalieri e
damigelle. Da un lato c'era dipinta povera gente che invocava di
interrompere le proprie sofferenze, ma veniva ignorata. Dall'altra
parte , vicino alla fontana, c'era invece un gruppo di signori
vestiti elegantemente che parlavano e scherzavano tra loro, senza
occuparsi di quello che succedeva lì accanto: loro vivevano in un
altro mondo dorato. Indifferenti alle sofferenze di tanti, voltavano
lo sguardo da un'altra parte e continuavano a suonare l'arpa come se
nulla potesse toccarli.
Tutto
mi è sembrato chiarissimo ! Ed era chiaro anche da che parte stavo
io...
E
intanto finisce la guerra, ma non le mie peripezie: c'è ancora un
capitolo della mia storia.
Militare
l'è ritornato (frammento
di “Sento
il fischio del vapore”
) (16)
Militare
l'è ritornato con la spada insanguinata
Militare
l'è ritornato con la spada insanguinata
Se
mi ritroverà già maridada,
ohi
che pena, ohi che dolor!
Se
mi ritroverà già maridada,
ohi
che pena, ohi che dolor!
Oh
che pena, oh che dolore,
che
brutta bestia è mai l'amore!
Oh
che pena, oh che dolore, che passione l'è mai l'amore
Oh
che pena, oh che dolore, che passione l'è mai l'amore
La
ricciolina, povera tösa
e
il militare l'abbandonò.
La
ricciolina, povera tösa
e
il militare l'abbandonò.
(Gildo
riprende il suo racconto)
Quando
sono guarito, devo tornare al corpo di destinazione e lì rimango
altri otto mesi. Però mi toccava il giudizio per la diserzione e
vengo chiamato a Torino davanti al Tribunale Militare (ndr
scandisce).
La
situazione è grigia per me: l'imputazione di "diserzione di
fronte al nemico" mi potrebbe portare davanti al plotone di
esecuzione e perciò decido di fingermi pazzo. Era
inutile che rispondessi al Giudice che ero stufo della guerra, che
avevo paura, che ero tornato a casa per rivedere la fidanzata o la
mamma... gli risposi che non ricordavo niente, proprio niente".
Ero
diventato anch'io uno “scemo
di guerra”.
Il
Giudice mi condanna a tre anni di carcere militare condonati per il
lungo periodo di servizio al fronte. Emessa la sentenza, il Giudice
mi chiede se ho qualche cosa da dichiarare ed io:
"Devo
dire, signor Pubblico Ministero, che la guerra mi ha rovinato la
salute: ho preso la malaria in Albania e sono stato ricoverato tre
volte all'Ospedale Rosolino Pilo di Palermo".
"Tuttavia
- mi interrompe il Pubblico Ministero - voi
siete un traditore della patria! [ndr
con enfasi queste ultime tre parole]
"Sono
stato più traditore io
– gli rispondo -
che ho fatto 38 mesi al fronte o gli italiani che sono stati nelle
retrovie e non solo non hanno fatto la guerra, ma hanno riempito
anche i loro portafogli?"
Il
Tribunale mi ha ammesso al premio di smobilitazione riservato ai
reduci di guerra. E son tornato a casa, libero, finalmente, di fare
la mia vita.
(Voce
di donna)
«La
guerra non si vince con la vittoria. E se anche prendessimo il San
Gabriele? Se prendessimo il Carso e Monfalcone e Trieste? A che punto
si sarebbe? Avete visto tutte quelle montagne quest’oggi? Credete
che possiamo prenderle tutte anche quelle? Solo se gli austriaci
smettono di combattere. Una delle due parti deve smettere di
combattere. Perché non smettono di combattere? Perché non smettiamo
di combattere?
...
Perfino
i contadini sanno che non si deve credere in una guerra.
Tutti
odiano questa guerra.
»
(17)
[Appare l'immagine del
monumento al fante-contadino di Piazza Baracca a Buscate]
E
voi (pausa
puntando
il dito verso il pubblico)
che ne pensate della guerra ?
[Appare
il murales di Orgosolo con la frase di David Maria Turoldo tratta da
“Salmodia contro le armi” e parte la canzone dei Baraban “Fuoco
e mitraglia” raccolta da Roberto Leydi a Ravenna] (18)
[Appare
un cartello che riporta l'Art. 11 della Costituzione italiana:
“L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli
altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali...”]
Partono
i titoli di coda con la canzone “Fuoco e mitraglia”
Non
ne parliamo di questa guerra
che
sarà lunga un'eternità;
per
conquistare un palmo di terra
quanti
fratelli son morti di già!
Fuoco
e mitragliatrici,
si
sente il cannone che spara;
per
conquistar la trincea:
Savoia
! - si va.
Trincea
di raggi, maledizioni,
quanti
fratelli son morti lassù!
Finirà
dunque 'sta flagellazione?
di
questa guerra non se ne parli più.
O
monte San Michele,
bagnato
di sangue italiano!
Tentato
più volte, ma invano
Gorizia
pigliar.
Da
monte Nero a monte Cappuccio
fino
all'altura di Doberdò,
un
reggimento più volte distrutto:
alfine
indietro nessuno tornò.
Fuoco
e mitragliatrici,
si
sente il cannone che spara;
per
conquistar la trincea:
Savoia
! - si va.
FINE
Il
presente lavoro si è liberamente ispirato alla testimonianza di
Egidio (Gildo) Fraschina (n. a Buscate il 23/10/1893 e morto il
22/07/1988) raccolta con un' intervista del 27 marzo 1983 a cura del
Circolo culturale Gianni Ardizzone di Buscate e pubblicata con il
titolo “E venne la Grande Guerra”, in "Contrade Nostre",
vol. III, pp. 1110-113.
I
racconti di filanda sono tratti da due interviste a Giulina Gianella
(n. 1893), intervista del 19 dicembre 1982 e Lina De Vecchi (n.1901),
intervista del 20 dicembre 1981 sempre pubblicate su Contrade Nostre
sotto il titolo “E lé la và in filanda”.
Titoli
di coda
Gildo
va alla guerra
La
Grande Guerra vista dalla parte di un fante
Sceneggiatura
e regia
Guglielmo
Gaviani
Interpreti
(in ordine di apparizione)
Sacha
Oliviero (Gildo)
Annalisa
Restelli
Lucia
Dumi
Stefano
Spiniello
Pinu
Cardini
Alice
Luoni
Riprese
ed editing video
Cristiano
Piattoni
Valeria
Valli
Riprese
effettuate presso la Polisportiva Bienatese
©
guglielmo gaviani 2015
1)
spazzole ruvide per lavare i panni
2)
Le parti in corsivo sono tratte dalla testimonianza di Egidio
(Gildo) Fraschina (n. a Buscate il 23/10/1893 e morto a Buscate il
22/07/1988). Intervista del 27 marzo 1983 a cura del Circolo
culturale Gianni Ardizzone di Buscate e pubblicato con il titolo
“E venne la Grande Guerra”, in "Contrade Nostre",
vol. III, pp. 111-113.
3)
I racconti di filanda sono tratti da due interviste a Giulina
Gianella (n. 1893), Intervista del 19 dicembre 1982 e Lina De Vecchi
(n.1901), Intervista del 20 dicembre 1981 pubblicate in “Contrade
Nostre” sotto il titolo “E lé la và in filanda”.
4)
In Guglielmo Gaviani, “Sa poo? Avònti l'é vartu
!” Editrice Leoni, 1988, p. 52
5)
Raccolto a S. Ilario d'Enza, vicino Parma, in data non precisata e
nel repertorio del Gruppo Incanto e
presente nel loro spettacolo "Italiens,
Quand les immigrés c'était nous"
6)
Il Quarto Stato è un dipinto realizzato nel 1901,
inizialmente intitolato Il cammino dei lavoratori. E' la
progressiva rielaborazione del medesimo soggetto. La prima versione
si intitolava gli Ambasciatori della fame, il secondo quadro
è Fiumana e infine Il cammino dei lavoratori del 1898
che è il bozzetto preparatorio al lavoro de Il quarto stato.
7)
Giovanni Papini, dal programma politico futurista
pubblicato su “Lacerba” in previsione delle elezioni del 1913
8)
Autore sconosciuto, 1916. La versione è cantata è
9)
Matilde Serao, Parla una donna – Diario femminile di guerra,
Treves editore , 1916 .
Come afferma il contemporaneo
Antonio Gibelli (“La Grande Guerra degli Italiani
1915-1918”) “…non meno importante, fu la dilatazione dei
compiti e dei ruoli delle donne nelle campagne: secondo calcoli
attendibili, su una popolazione di 4,8 milioni di uomini che
lavoravano in agricoltura, 2,6 furono richiamati alle armi, sicché
rimasero attivi nei campi (a parte le scarse licenze) solo 2,2
milioni di uomini sopra i 18 anni, più altri 1, 2 milioni tra i 10
e i 18 anni, contro un totale di 6,2 milioni di donne superiori ai
10 anni. Inevitabile fu l'occupazione femminile di spazi già
riservati agli uomini, e contemporaneamente lo straordinario
aggravio di fatica e di responsabilità. Le donne videro ancora
dilatarsi i tempi e i cicli abituali del lavoro (col coinvolgimento
delle più piccole e delle piu vecchie), e dovettero coprire
mansioni dalle quali erano state tradizionalmente esentate”.
10)
Padre Agostino Gemelli citato
da Antonio Gibelli, L'officina della guerra, Universale Bollati
Boringhieri.
11)
Circolare n. 3525 del 28 settembre 1915 del Generale Luigi Cadorna.
Segue la “famosa” Circolare del 25 Febbraio 2015 con oggetto
“Attacco frontale e ammaestramento tattico” sempre del
Capo dello Stato Maggiore dell'Esercito Luigi Cadorna.
12)
Sono ufficialmente 750 i fucilati a seguito di sentenze dei
tribunali militari di guerra, mentre è imprecisato il numero di
militari passato alle armi “per decimazione” durante la grande
guerra. Il Pubblico Ministero della Procura di Padova, dr. Sergio
Dini ha inviato una lettera nel luglio del 2014 al ministro della
difesa Roberta Pinotti nella quale chiede “un provvedimento
clemenziale di carattere generale, a favore di tutti i condannati a
morte del I° conflitto mondiale”. Riabilitare la memoria dei
soldati fucilati e decimati durante il grande massacro 15-18 è una
chiave morale per un centenario che, altrimenti, rischia di essere
solo retorico.
13)
Giuseppe Mimmi è l'autore di una
Memoria di guerra
che racconta tra l'altro l’ammutinamento e la successiva
decimazione della Brigata Catanzaro. La sua testimonianza è stata
consegnata all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo
Stefano nel 2000.
14)
Il generale Gaetano
Giardino è stato
comandante della 2° e poi della 5° armata successivamente al
comando della 48ª divisione di fanteria, schierata di fronte a
Gorizia. Fu proposto da Cadorna come Ministro della Guerra in
seguito alla crisi del gabinetto Boselli, al posto del collega Paolo
Morrone.
15Il
Trionfo della Morte è un affresco staccato nel 1944 (misure
600x642 cm) conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis
a Palermo.
L'opera
proviene dal cortile di palazzo Sclafani
a Palermo.
16In
Guglielmo Gaviani, “Sa poo? Avònti l'é vartu !”
Editrice Leoni, 1988, p. 21. Informatrici Angela Gianella (Panöa)
n. 1893 e Giuseppina Merlotti (Pinéta) n. 1899, registrazione del
dicembre 1980-gennaio 1981.
17)
cft Ernest Hemingway, Addio
alle armi, Oscar Mondadori, Traduzione di Fernanda Pivano.
18)
Le località menzionate nelle varie versioni del canto ne fanno
risalire la composizione tra la fine del 1915 e l'inizio del 1916.
Alle pendici di Monte San Michele era allora situato un trincerone
italiano, che verso valle andava al bosco Cappuccio (qui chiamato
"monte Cappuccio"), e verso monte al bosco Lancia ed alle
trincee delle Frasche e dei Razzi. La conquista di quest'ultima (qui
citata come "Trincea dei Raggi"), il 16 dicembre 1915,
costò alla brigata Sassari la morte dei due terzi dei suoi soldati.
Canti come questo, da cui traspare - con inattesa sincerità - un
sentimento doloroso verso l’obbligo del servizio militare e verso
la guerra, non sono molto frequenti nel repertorio dei soldati, dato
che la retorica celebrativa dei canti militari impone e diffonde ben
altri testi.]
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